Nell’estate del 1999 Antonio Di Bono e Dario D’Amico, due subacquei con la passione per l’archeologia, segnalarono quello che si sarebbe rivelato come uno dei relitti più interessanti scoperti nelle acque siciliane. I resti lignei assemblati, di una piccola porzione dello scafo, di una grande, imbarcazione affioravano alla base di un poderoso accumulo di sedimento fangoso fittamente compattato dalle intricate radici della posidonia formatasi nei sedici secoli del periodo intercorso dal naufragio. Nello stesso sedimento e sul fondale circostante, in evidente associazione con i resti dell’antica imbarcazione, si trovavano sparsi numerosi frammenti di anfore.
La nave dovette trovarsi al centro di una vigorosa turbolenza meteo marina aggravata dal fatto che navigando vicino la costa fu in poco tempo sospinta verso l’arenile, dove l’azione alluvionale dell’antistante fiume Birgi dovette contribuire ad aumentare la difficoltà di manovra. Il disastro fu inevitabile probabilmente per una manovra errata o per un’avaria al timone o alle vele.
L’originaria morfologia della costa, ben diversa da quella attuale per la presenza di vasti arenili, era stata modificata dall’intervento dell’uomo che aveva costruito un sistema di regolarizzazione delle sponde della foce estuario navigabile del fiume Birgi per agevolare l’attracco di imbarcazioni da carico. Le tracce di tali banchine sono state identificate a qualche decina di metri a Sud del relitto, a una profondità di circa 2,5 metri e perfettamente in linea con la paleo foce del Birgi. Questo scalo marittimo dovette avere lunga vita a giudicare dalla presenza nell’area di abbondante ceramica pertinente ad altre epoche. Potrebbe essere stato uno dei tanti scali costieri della Sicilia occidentale, legato ai commerci con il Nord-Africa, che ebbero particolare sviluppo dopo la vittoria romana sui Cartaginesi nelle acque di Levanzo il 10 marzo del 241 a.C. Nello stesso golfo di Marausa, nell’estate 2020, poco distante da questo relitto, è stata individuata a pochi metri di profondità una seconda nave romana con il fasciame visibile per una lunghezza di circa 10 metri, sostenuto dal costone di sabbia. Questo ritrovamento ha di fatto confermato le ipotesi di Sebastiano Tusa che identificava Marausa (TP) come un’area addetta allo scarico e carico merci, in un porto canale che ha sulla terraferma un emporium.
Tornando al primo relitto si può ragionevolmente affermare che la notevole stazza della nave ha contribuito ad accelerarne l’affondamento. Data la vicinanza alla costa il carico dovette essere stato recuperato poco dopo il naufragio. Poche anfore integre sfuggirono all’accurata ricognizione degli urinatores (i palombari del tempo) presumibilmente ingaggiati per il recupero. La disposizione assolutamente disordinata del carico e la sua estrema frammentarietà sono chiaramente la conseguenza del naufragio della nave sbattuta dalla violenza del mare sulla costa, ma anche dall’attività di recupero degli urinatores.
Lo scavo ha messo in luce l’intera porzione conservata della nave (20 metri x 8 circa) e quello che rimaneva dell’ingente carico anforaceo. La porzione di scafo rimasta integra si presentava alquanto schiacciata per la pressione esercitata dal sedimento soprastante e, pertanto, non ha mantenuto l’originale sezione trasversale. Gli elementi lignei che si conservavano al di sotto del poderoso strato di matta mostravano una condizione di conservazione eccellente; quelli che fuoriuscivano lateralmente da tale strato presentavano le estremità fortemente alterate dalla Teredo navalis, un mollusco molto diffuso. Sui fianchi l’imbarcazione era conservata per alcune decine di centimetri. Dalle caratteristiche desunte, la nave doveva essere lunga circa 20/25 metri e larga circa 9. La tecnica di costruzione è quella a guscio portante con il fasciame esterno montato a paro con assemblaggio a mortase e tenoni.
Il restauro del relitto curato dal laboratorio «Legni e segni della memoria» di Salerno è stato effettuato con una tecnica innovativa in collaborazione con l’Università francese de La Rochelle. La nave di Marausa, dopo le fasi di recupero e restauro, è oggi esposta al Museo del Baglio Anselmi di Marsala che si auspica possa diventare, in un prossimo futuro, il Museo delle Navi.